Don Giuseppe Pollarolo

Sempre sulla frontiera delle emergenze

Don Giuseppe Pollarolo: prete partigiano… prete di frontiera… prete di prima linea… prete degli operai… predicatore… ecc. ecc.: è come tentare di arginare e incanalare una polla d’acqua sorgiva potente e abbondante, che ti sfugge da tutte le parti. Don Pollarolo è stato tutto ciò e di più.
Nacque a Pozzolo Formigaro (Alessandria), il 31 agosto 1907. Seguì, ancora ragazzo, Don Luigi Orione, il Fondatore della Piccola Opera della Divina Provvidenza, nei “tempi eroici” della giovanissima Congregazione. Il 26 giugno del 1930 fu ordinato sacerdote. Divenne precocemente predicatore molto ricercato e apprezzato.
Dal 1942 al 1987, Don Giuseppe Pollarolo visse a Torino scrivendo pagine stupende di storia civile e religiosa, a partire dagli anni della guerra (1940-1945) e nei decenni successivi.
Nel 1943, raggiunse Duccio Galimberti sulle montagne del cuneese e fu cappellano dei partigiani sui monti della resistenza, nell’Astigiano e nell’Oltrepò pavese, “con il breviario alla cintola e mai con il fucile”, come diceva. Durante questo tempo di vita di cappellano tra i partigiani, egli filmò l’ambiente e le vicende. I suoi film amatoriali sono diventati una preziosità delle cineteche storiche. Su questa sua attività c’è una interessante video-intervista storico dal titolo: Don Giuseppe Pollarolo, partigiano con breviario e cinepresa.

Durante tutto il periodo di persecuzione contro gli Ebrei, Don Giuseppe Pollarolo fu a Torino collaboratore della “Carità dell’Arcivescovo” Maurilio Fossati, presente sempre nelle situazioni di emergenza, là dove irrompe il bisogno. Tale fu la tragedia degli ebrei perseguitati dai nazisti e dalle leggi razziali fasciste. Il braccio destro del cardinale nell’aiuto agli Ebrei era il suo segretario, don Vincenzo Barale. Il braccio operativo, tempestivo e intraprendente nel trovare le soluzioni, fu Don Giuseppe Pollarolo. Egli scrisse: “Mons. Barale mi ha più volte chiamato a collaborare con lui per la sistemazione di Ebrei, singoli e famiglie, in pericolo di persecuzione. A suo nome ho sistemato Ebrei presso il Convento delle Suore Carmelitane in Val S. Martino 1 a Torino. Ho avviato e, qualche volta ho trasportato in macchina, Ebrei in altre Case, fuori Torino, dell’Opera Don Orione”.

I tedeschi avevano messo una taglia sulla sua testa e gli davano la caccia. Il 26 giugno 1944, verso le ore diciotto, i Repubblichini arrestarono Don Pollarolo e lo portarono nel carcere-caserma di via Asti. Senza processo, lo misero davanti al plotone di esecuzione. Raccolto in preghiera, Don Giuseppe era sicuro della propria fine ma, improvvisamente, davanti al plotone cadde una bomba a mano suscitando la fuga dei soldati tedeschi. Non vedendo più nessuno, saltò il muro che aveva a ridosso e, dall’altra parte, trovò i suoi partigiani ad abbracciarlo: erano stati loro a tentare il colpo con grande rischio, per amore del loro amico e padre. Il 29 novembre 1944, don Giuseppe Pollarolo fu decorato con medaglia di bronzo al Valor Militare.

Per comprendere il senso di rispetto per la vita e la libertà dell’uomo, giova ricordare l’episodio di cui Don Pollarolo fu protagonista il 29 aprile 1945, in Piazzale Loreto, dove furono esposti a ludibrio i cadaveri di Mussolini, della Petacci e di altri esponenti fascisti. “Don Pollarolo, era arrivato in Piazzale Loreto con una squadra di partigiani su dei carri armati lasciati a poca distanza. C’era già molta folla attorno ai corpi di Mussolini e degli altri compagni fascisti uccisi. Fin dalle prime ore del mattino, persone esaltate e gente contagiata dall’euforia per la fine della guerra e del regime fascista, avevano sfogato su quei poveri corpi la propria rabbia con ogni sorta di insulti e oscenità. Claretta Petacci era completamente svestita. Quando Don Pollarolo venne avanti nella piazza e vide lo scempio di questa donna nuda, cominciò a gridare: “Largo, largo, lasciatemi passare. Questo scempio non si deve vedere”. Tutti lo lasciarono passare. Don Pollarolo, davanti alla folla sorpresa e per un attimo ammutolita, si tolse di dosso una specie di ‘spolverino’ nero, abbottonato davanti, e coperse alla meglio il corpo della Petacci”.

Poi, inorridito per quanto avveniva, intervenne presso il Prefetto di Milano e quei corpi furono tolti e trasportati all’Istituto di Medicina Legale. Subito dopo, parlò dai microfoni di “Radio Milano Libera” invitando tutti alla ragionevolezza: “Il regno dell’odio e del terrore è terminato – disse -, deve iniziare il regno dell’amore e della giustizia. La giustizia è una grande virtù sociale, la violenza è un vizio, anche quando è necessario intervenire con severità nell’organismo sociale, bisogna sempre agire per amore, per dargli la sanità”.

Nel difficile dopoguerra, a Torino, aperse le Case del Giovane Operaio e l’Università Popolare Don Orione per elevare le classi povere degli operai e degli immigrati. Fu artista della parola e della penna, del pennello e della cinepresa.
Continuò la sua attività sociale e divenne noto come “prete delle fabbriche”, brillando per particolare sollecitudine verso i poveri, il popolo umile e lavoratori. Per le migliaia di giovani, accorsi a Torino per il lavoro alla Fiat, aperse provvidenziali “Case del giovane operaio” e l’Università Popolare Don Orione.
Alla fine degli anni ’50 gli fu affidata l’edificazione edilizia e spirituale della parrocchia delle Vallette “Santa Famiglia di Nazaret”. Qui fu sepolto dopo la morte avvenuta il 22 gennaio 1987, a 80 anni di età.

Don Flavio Peloso

 

 

Don Enrico Sciaccaluga

Stratega dell’economia e della solidarietà

Enrico Sciaccaluga nacque a Sampierdarena, Genova, il 21 novembre 1897. Ebbe una gioventù buona e brillante, compi gli studi tecnico-commerciali, militò nelle file dell’Azione Cattolica e fu dirigente degli Scout.
A 34 anni, nel giugno 1931, ci fu la svolta della sua vita: si offerse come collaboratore laico di Don Orione rendendo subito il suo prezioso aiuto nella multiforme attività amministrativa delle Case orionine di Genova.
“In quanto alle tue debolezze e instabilità, ricorda che sei chiamato a farti religioso, non perché sei perfetto, ma perché Dio, con la grazia e gli aiuti della vita religiosa, ti chiama a diventarlo. Prego per te e ti conforto molto e ti benedico con affetto in Gesù Cristo come padre”. Dopo questa lettera di Don Orione, il giovane contabile Enrico Sciaccaluga lasciò la sua brillante carriera, lasciò la sua numerosa e agiata famiglia, lasciò tutto e seguì Don Orione che già ammirava e amava come un figlio. Il 25 marzo 1933, ricevette l’abito religioso dalle mani di Don Orione.
Il 20 marzo 1934, don Orione lo presenta come “un caro chierico, che lavora da vero facchino è il mio braccio destro pel Piccolo Cottolengo”. Fece la professione religiosa, il 13 settembre 1935, e divenne sacerdote il 6 giugno 1936.
Per la sua preparazione specifica, fu coinvolto fin dall’inizio nella collaborazione economico-amministrativa delle complesse case del Piccolo Cottolengo Genovese, che contribuì a consolidare come organizzazione, amministrazione e spirito religioso. Fu il sostegno amministrativo di Don Sterpi mentre Don Orione era in Argentina (1934-1937); da qui, il Fondatore gli scriveva quasi settimanalmente. Sulla busta dell’ultima lettera di Don Orione a lui diretta c’è il timbro postale di Sanremo che indica “ore 21:00, 12 marzo 1940”.

Durante la seconda guerra mondiale, dopo l’8 settembre 1943, si scatenò in Italia la caccia all’ebreo e si compì la “shoah”. Il Piccolo Cottolengo di Genova divenne un importante centro di aiuto e di salvezza per molti ebrei. 1 Don Sciaccaluga, ne era il direttore e con Suor Bennata, Suor Filippina, il chierico Luigi Carminati e altri scrisse una pagina coraggiosa e gloriosa di carità cristiana.
Era in contatto con la Curia Arcivescovile di Genova, in cui erano attivi mons. Siri e mons. Repetto. Numerosi ebrei arrivarono a Genova al seguito dei soldati italiani fuggiti dalla Francia attraverso il confine col Piemonte. Ebrei singoli o con le famiglie, francesi, tedeschi, belgi, austriaci, braccati dai tedeschi e più avanti dai repubblichini in ottemperanza alle leggi contro la razza ebraica.
Don Sciaccaluga collocò molti ebrei negli istituti, a volte inserendoli anche nelle attività che vi si svolgevano. Riusciva a sistemare e a tenere in contatto anche intere famiglie, mettendo uomini in un istituto, figli in un altro, le donne con le suore. Fu una rete di salvataggio discreta ed efficiente.
Un gruppo di ebrei incarcerati gli furono affidati per un certo periodo, in domicilio protetto, nella casa di Camaldoli, sotto la responsabilità di Don Ferruccio Netto. Don Sciaccaluga adattò nel fondo dell’ampio terreno del Paverano una casetta per ospitare alcuni bambini ebrei. Due suore, Suor Filippina e Suor Bennata, furono addette al vitto, al vestiario, alla lavanderia. Per il trasporto dalla stazione Principe provvedeva fratel Luigi Carminati, che si vedeva girare sul suo motocarro Guzzi 500, coperto da un tendone. Ricordava Don Sciaccaluga: “Tutto si svolgeva col massimo riserbo: oltre al direttore, suor Filippina, suor Bennata e fratel Carminati, nessun’altra persona ne era a conoscenza”.
Per rapporti delicati e pericolosi si serviva di un ragazzo lesto e disinvolto che non doveva destare sospetti nei suoi giri in curia, in comune, all’ufficio anagrafe: era Ferruccio Fisco. “Io sono quell’ex-ragazzino, all’epoca quattordicenne, che accompagnava quelle persone di stirpe ebraica a nascondersi presso vari Istituti Religiosi della città per sfuggire alle persecuzioni hitleriane”. Poi Ferruccio Fisco passò tutta la sua vita al Piccolo Cottolengo.
Mons. Repetto, ricordando quelle vicende tragiche e nobili, ringraziava ancora Don Enrico Sciaccaluga: “L’impresa fu quella di una carità che era preparata e pronta ad ogni rischio. Io mi permetto aggiungere una doverosa testimonianza. E cioè che quel servizio di carità fu costante, per quanto durarono gli interminabili mesi di terrore, e del tutto disinteressato. Fu soprattutto di una gentilezza squisita. Ricordo che quando, con una certa perplessità, sia per il pericolo cui si esponevano le case del Piccolo Cottolengo, sia perché esse avevano già accolto parecchi rifugiati, venivo a chiedere a Lei, allora Superiore, un caldo nascondiglio per i trepidanti fuggiaschi, Lei, con un cenno cortese, immediato, naturale, mi rispondeva sempre di sì, senza provare insofferenza, senza imporre scadenze, senza chiedere garanzie. Ricordo infine che a quegli innocenti perseguitati a morte, Lei dava non soltanto le pareti di una stanza nascosta, ma la Sua riconfortante compagnia. Lo stesso Card. Boetto era rassicurato, sapendo della prudenza e della generosità dei discepoli di Don Orione”.

Nel Capitolo generale del 1952, Don Sciaccaluga fu eletto economo generale della Congregazione, ruolo che svolse fino al 1969 con grande senso religioso, oculatezza e prudenza. Compì viaggi lunghi e faticosi per raggiungere tutte le Case della Congregazione, soprattutto al fianco del superiore generale Don Carlo Pensa. Univa in modo spontaneo il silenzio e l’operosità, sostituendo alla parola l’esempio costante di dedizione nel compiere il bene. Era di pietà semplice e sincera, dedito alla preghiera, vigile sempre – come egli scrisse a Don Sterpi – per non diventare “un funzionario sia pure di alto rango” e rimanere invece, sempre e in tutto, il sacerdote secondo l’insegnamento e il modello lasciato da Don Orione.
Trascorse gli ultimi due decenni della sua vita al Villaggio della Carità di Genova – Camaldoli, prima nel servizio attivo e poi nella pazienza della vecchiaia, emblema di vita povera e serena, di vita religiosa fedele, di benevolenza verso tutti. Morì il 15 dicembre 1992.

 

 

Don Giambattista Lucarini

Dagli Appennini alle Ande, artefice di carità

Don Giambattista Lucarini è nato a Pieve Bovigliana 1 maggio 1915 ed è morto a Los Cerrillos (Cile), il 26 ottobre 2004. Fu direttore dell’Istituto S. Antonio per fanciulli poveri e parroco di San Rocco e Baudolino, in Alessandria, negli anni 1943-1947.
È di questo periodo la sua coraggiosa opera a favore dei perseguitati durante la guerra. Rischiando la propria vita, attuò l’invito dei Vescovi piemontesi del 1944 ad “absconde fugentes et vagos ne prodas” (Isaia 16, 3), nascondendo e proteggendo fuggiaschi e ricercati dai nazifascisti: non solo oppositori, ma anche partigiani, politici e membri del comitato locale di Liberazione, compresi alcuni ebrei mandatigli dal cardinale Maurilio Fossati, arcivescovo di Torino.
Mons. Vincenzo Barale fu il coordinatore delle iniziative che il Card. Maurilio Fossati di Torino promosse a salvezza degli Ebrei. Trovò un coraggioso collaboratore in Don Giambattista Lucarini, giovane direttore dell’Istituto orionino di Alessandria, di Piazza San Rocco. Questi accolse numerosi “piccoli sinistrati” nell’Istituto. Tra i rari documenti sul tema c’è una lettera di Don Lucarini che informa Mons. Barale in data 15.11.1945: “La informo che i due ebrei, non avendo potuto trovare altrove sistemazione, li ho sempre tenuti con me; essendo due ottime persone, mi dispiaceva metterli fuori dell’Istituto senza averli prima sistemati, in qualche modo. Ora però, sono riusciti a preparare tutti i documenti e nella settimana prossima partiranno per la Francia”.

All’indomani della guerra gli ebrei torinesi espressero la loro riconoscenza all’Arcivescovo per quanto la Chiesa torinese aveva fatto per loro. Il 15.5.1945 Eugenio Zorzi scriveva: “Nell’atto di assumere l’amministrazione straordinaria della Comunità israelitica di Torino, a nome di tutti i correligionari ed a nome mio proprio sento il dovere di presentare a S. Eminenza l’espressione della nostra riconoscenza e gratitudine per l’assistenza continua, illuminata e generosa prestata nei tristi giorni della persecuzione ai membri della nostra Comunità con nobile spirito di fratellanza e con esemplare comprensione da V.E. e dalla Autorità ecclesiastica dipendente e in genere dagli Ecclesiastici tutti .
Don Lucarini ebbe un forte senso umanitario di fronte alle persone in pericolo di vita, bisognose di aiuto, di rifugio, di affetto. Tali erano gli Ebrei quando si scatenò la tempesta omicida contro di loro. Tali erano i partigiani che conducevano una resistenza nascosta ed erano ricercati come criminali. In pericolo di vita, poi, furono anche gli esponenti del fascismo e i soldati sbandati dell’esercito tedesco, contro i quali si scatenarono vendette omicide. Don Flavio Peloso ricorda di avere ascoltato da Don Lucarini il racconto di un passaggio drammatico e significativo della sua azione di soccorso. Aveva ospitato e protetto partigiani; un importante “capo” fu salvo grazie a lui. Dopo alcuni mesi, aveva nascosti alcuni esponenti fascisti, a loro volta a rischio di rappresaglia e di morte. Fu scoperto e i partigiani l’avevano già messo al muro per ucciderlo. Lui fece il nome di quel “capo” partigiano da lui precedentemente salvato. Dopo breve tempo venne lui in persona e Don Lucarini ebbe salva la vita”.
Per lui, prete, la vita era sacra, la vita di tutti, la vita senza aggettivi (italiano o tedesco, fascista o comunista), la vita in pericolo va sempre aiutata. “La carità di Gesù Cristo non serra porte”, aveva imparato da Don Orione.
Nell’agosto 1944, dopo il bombardamento della stazione di Villalvernia egli fu tra i primi ad arrivare in soccorso del paese distrutto, con tanti morti e feriti.
“Allora ero forte e non so come feci a resistere. Ma la guerra e queste vicende mi sconvolsero profondamente. Chiesi ed ottenni dai miei superiori di partire missionario”.

Il 23 febbraio 1948, da Genova, con la motonave “Maria Costa” salpò per il Sud America con altri missionari. Vi rimase, missionario e grande organizzatore di iniziative e istituzioni di carità, fino alla sua morte, avvenuta il 26 ottobre 2004.

Don Flavio Peloso

 

 

Don Lorenzo Nicola

E la squadra di protezione civile dei chierici orionini

Don Lorenzo Nicola nacque a Cornale (Pavia, diocesi di Tortona) il 28 febbraio 1912. Entrò ragazzo, nel 1921, nel seminario di Tortona e nel 1924 seguì il fratello Carlo entrando nella congregazione orionina divenendo sacerdote nel 1934. Singolarmente dotato per gli studi, si laureò in Teologia nel 1935. Fu direttore della casa di Varallo Sesia (1939-1942) e poi fu prefetto dei chierici orionini nella Casa madre di Tortona dal 1942 al 1946. Qui visse in modo attivo ed eroico le tragedie della guerra prodigandosi generosamente, anche a rischio della propria vita, a salvezza e conforto di tutti. In seguito, partì missionario per l’Argentina ove rimase fino al 1956. Fu inviato poi in Spagna, ove fu uno dei protagonisti dell’avvio della congregazione in quella nazione.
Nel 1963, tornò in Italia nel tentativo di combattere la leucemia. Sul letto di morte, espresse ancora la sua dedizione: «Offro la mia vita per il Papa, per il Concilio, per le vocazioni… Oh, i miei ragazzi, i miei ragazzi, i miei ragazzi!”. L’ultimo suo desiderio: «Troverete un po’ di soldi in valuta italiana e spagnola: desidererei servissero per trasportare in Spagna la Madonna di Don Bosco e di Don Orione. Avevo tanto sperato di accompagnarla io al nuovo seminario di Fròmista, ma capisco che era follia sperare. La Madonna… E’ l’ultimo dono ai miei cari ragazzi, e spero la pregheranno sempre anche per me».
Morì santamente a Genova-Castagna, il 13 settembre 1965.

Portiamo l’attenzione sull’operato di Don Lorenzo Nicola durante gli anni 1943-45, nel periodo di grande confusione sociale e bellica della seconda guerra mondiale. Egli fu animatore e l’organizzatore di molte azioni di solidarietà che partirono dall’Istituto Teologico di Tortona, con protagonisti i chierici di Don Orione.
“Era toccato a me coordinare le azioni e gli interventi”, ha scritto in un Memoriale Don Lorenzo Nicola. “Quante volte Don Sterpi, sorridendomi e dandomi la benedizione, tornando da una spedizione di bene, mi chiedeva: ‘Non ti hanno ancora messo dentro?’. ‘Non ci sono ancora riusciti, grazie a Dio’, rispondevo. E mi domandavo: che avrebbe fatto Don Orione al mio posto? Brigate nere o partigiani, fascisti o tedeschi, condannati a morte o vincitori, per me erano uguali: Don Orione li avrebbe abbracciati tutti ugualmente”.
Il bombardamento di Villalvernia, il 1° dicembre 1944, ore 14.20, è stato senza dubbio l’evento bellico più tragico dell’intera zona. Lasciò nel lutto centinaia di famiglie. Alcune foto testimoniano lo scenario di distruzione prodotto a Villalvernia. In primo piano, si vedono due preti in tonaca nera che trasportano un morto su una portantina.
“Quello a sinistra sono io – precisava Don Giovanni Gatto – e quello a destra è Gerardo Durante, entrambi ancora chierici. Fu una cosa terribile; il paese completamente distrutto, oltre cento morti, molti di più i feriti. Siamo andati una squadra di chierici e preti e abbiamo lavorato a più non posso per quella povera gente”.

È conservato nell’Archivio Don Orione un Resoconto dell’opera di soccorso svolta durante la guerra dagli Orionini di Tortona. E’ scritto da Don Carlo Nicola; è senza data, ma precedente la conclusione della guerra mondiale.
“Abbiamo due squadre di pronto soccorso, ciascuna di dodici elementi: il capo, il cappellano, l’infermiere, due barellieri, un portaordini e sei chierici per i vari uffici, raccolta feriti, ricupero salme, sterro di fabbricati ecc.
Praticamente siamo intervenuti una ventina di volte nella nostra zona, alcune rare volte senza risultato, per grazia di Dio, non essendovi né feriti né morti, altre volte con risultato. Elenco:

  1. Pontecurone: nel luglio 1944: bombardamento dei ponti; accorsi con autocarro, abbiamo raccolto un ferito e portato all’ospedale di Tortona.
  2. Rivalta: 17 agosto 1944, bombardamento della polveriera; accorsi con macchina abbiamo medicato un ferito leggero.
  3. Rivalta: un nostro chierico aiuta ad estrarre da un apparecchio americano caduto, i cadaveri dei due aviatori.
  4. Tortona: 1° agosto 1944, bombardamento dei ponti della Scrivia: Don Simioni soccorre un ferito sul letto del torrente, sotto un secondo bombardamento.
  5. Tortona: 12 settembre 1944, bombardamento della Casa del Fascio. Raccogliamo un morto e alcuni feriti.
  6. 12 settembre, bombardamento dei ponti dello Scrivia: coi militi raccogliamo un milite fulminato dall’alta tensione; altro bombardamento. Ai ponti: sono morti un uomo e una donna.
  7. Tortona: agosto 1944, mitragliamento di un treno germanico dopo il bivio: soccorriamo coi tedeschi e Brigate Nere, alcuni soldati germanici feriti portandoli all’ospedale e ne portiamo uno morto alla camera mortuaria dell’Ospedale.
  8. Alessandria: agosto 1944, dopo il bombardamento della stazione, accorrono i nostri colla macchina: aiutano Don Lucarini nel soccorso.
  9. Tortona: 1° dicembre 1944, bombardamento Stazione: aiutiamo a trasportare all’ospedale alcuni feriti.
  10. Villalvernia: 1° dicembre 1944, accorriamo dopo il bombardamento per il soccorso ai feriti ed il recupero delle salme Vi torniamo per dieci giorni consecutivi in numero da venti a trenta, con alcune Suore, per lo sterro delle macerie, sotto le quali troviamo molte salme, che le Suore di D. Orione compongono nella Chiesa del povero paese. I morti di Villalvernia sono circa centoventi.
  11. Tortona: 14 dicembre 1944, bombardamento dell’Alfa: i nostri Sacerdoti e Chierici corrono al soccorso: alcuni di loro si trovano sotto il bombardamento della seconda ondata, uno è leggermente ferito, un altro è ricoperto di terra. Portiamo all’ospedale, aiutati dai pompieri e dai militari, alcuni morti e diversi feriti.
  12. Novi: dopo il gravissimo bombardamento del luglio e agosto, tutti i nostri religiosi del S. Giorgio si prodigano mirabilmente per il soccorso dei feriti e per il ricupero delle salme dei moltissimi colpiti.
  13. In un secondo bombardamento di Novi (dicembre 1944) i nostri confratelli di Novi si sono prodigati con lo stesso spirito di abnegazione.
  14. Nel bombardamento di Erba (Como) i nostri sacerdoti e chierici del Seminario di Buccinigo sono accorsi in aiuto dei feriti e per il ricupero delle molte salme.
  15. Tortona: 18 gennaio. Notte: Una casa bombardata. Corriamo al soccorso e, coi pompieri, togliamo dalle macerie quattro feriti e un ragazzetto morto.
  16. Tortona: 31 gennaio, bombardamento della ferrovia. Un morto e alcuni feriti.
  17. Tortona: 9 marzo. Notte: bombardamento di S. Rocco, Episcopio e varie case. Raccogliamo due morti e due feriti.
  18. Il lavoro di questi giorni: Abbiamo corso tanto a calmare gli animi e ad implorare clemenza per i prigionieri. Abbiamo già ottenuto molto. Molte vite sono state risparmiate e si è avuto ai prigionieri buon trattamento. Si portano notizie e pacchi ai prigionieri. Si lavora anche, d’intesa con le Autorità italo-germaniche per lo scambio dei prigionieri. Di questa attività difficile e delicata si potrà meglio dire in seguito.

Che il Signore ci aiuti a continuare ad aiutare i nostri fratelli che più hanno di bisogno e ai quali forse nessun altro potrebbe arrivare. Ora stiamo organizzando, con l’aiuto e sotto la direzione di alcuni Vescovi, una specie di assistenza caritativa ai prigionieri, tutti, lavorando attivamente: è questo il primo scopo, alla pacificazione degli animi, soprattutto tra Italiani. E ciò potrà dare frutti meravigliosi di bene specialmente in un domani, che si può prospettare anche vicino”.

Il nome di Don Lorenzo Nicola è legato ad un’altra pagina di eroica solidarietà umana e sacerdotale in occasione dell’ “eccidio del Castello di Tortona”. Lo stesso Don Lorenzo Nicola ci ha lasciato una memoria scritta degli eventi.
“La domenica pomeriggio del 25 febbraio 1945, un gruppo di Partigiani, tese una imboscata a due ufficiali tedeschi Max Vogel e Schulz, presso il Castello di Tortona, che venivano a piedi da Vho. Accerchiati, i due tedeschi reagirono sparando e rimanendo loro stessi immediatamente uccisi. Si temette l’immediata rappresaglia. Questa avvenne nel mattino del 27 febbraio seguente”.
Furono prelevati 10 detenuti dal carcere di Casale Monferrato e furono condotti a Tortona per la fucilazione, senza sapere di andare incontro alla morte. Don Lorenzo Nicola, che era accompagnato ad Alessandria i due tedeschi per la sepoltura, tornando a Tortona vide il convoglio passare al mattino presto a Tortona.
“Sono prete: cercherò di salvare il salvabile: cioè l’anima di quei poveretti”, disse tra sé, e corse al comando della Guardia Nazionale repubblicana per avere il permesso di andare ad assisterli. Ottenutolo, corse alla Valletta, presso la Torre del Castello. Don Nicola era conosciuto perché era anche il cappellano del Sammelagher, campo di concentramento. Il maresciallo tedesco gli concesse di avvicinarli e di dire loro buone parole e benedirli. Tuonò la scarica dei mitra.

“Quando mi volto verso la Valletta, un ufficiale, capopolizia, stava dando a ciascuno il colpo di grazia! Mi affretto e scendo verso di loro: passo davanti al plotone dei giustizieri: il fratricidio li fa vergognare; io non li guardo: se ne accorgono e restano mortificati. Il capo della polizia mi grida: “Kamerade weg!”, via, via! L’ufficiale italiano mi avvicina: “Padre, il Signore ci perdonerà per quello che abbiamo fatto? Anzi, dovuto fare?”. I tedeschi hanno lasciato ordine che i morti rimangano lì, in quello stato sino al giorno dopo, perche tutti i tortonesi vedano… Tortona è shoccata. Poi, un ingegnere del municipio ha telefonato, dicendo che i tedeschi hanno incaricato l’autorità cittadina di seppellire quei poveretti lassù al Castello, ma il comune non trova uomini per il triste incarico: chiedeva che si mandassero i nostri chierici. Allestiamo una squadra volante di quindici chierici, con pale e picconi; don Venturelli è incaricato di guidarli e di raccogliere dati dei dieci per poi eventualmente identificarli con l’aiuto dei parenti: ma non smuoverli, non fotografarli. Quando tutti sono collocati nella grande concludiamo con un’ultima preghiera. È ormai notte fonda e gelida”. Solo “il 6 di aprile, le salme potranno essere finalmente raccolte, ancora, dai nostri, in casse di legno, e seppellite nella pace del cimitero”.
Don Lorenzo Nicola conclude il suo racconto con una supplica: “Valga il vostro sacrificio, o dieci fratelli del Castello di Tortona, ed il vostro, voi due figli della grande nazione tedesca, unita alla moltitudine di fratelli sacrificati su tutti i fronti d’Europa, a ottenere da Dio misericordia su questa povera umanità! Per il mondo nuovo, inizi l’era della pace in Dio!”.

In quest’ultima supplica di Don Lorenzo Nicola, scritta nel vivo delle vicende di odio e di morte e dell’opera di soccorso di cui fu protagonista, ci danno la misura del suo animo di uomo e di sacerdote e del suo orizzonte: “Per il mondo nuovo, inizi l’era della pace in Dio!”.

Don Flavio Peloso

 

 

Don Gaetano Piccinini

Don Gaetano Piccinini, nato ad Avezzano il 6 febbraio 1904, perse la famiglia a causa del terremoto della Marsica del 1915 e fu raccolto da Don Luigi Orione. Il Santo gli fece da padre e Piccinini si identificò affettivamente e spiritualmente con lui divenendo religioso e sacerdote tra i suoi Figli della Divina Provvidenza.
Laureato in Lettere, fu Direttore e Preside in diversi Istituti Orionini, tra i quali il “Dante” di Tortona e il “San Giorgio” di Novi Ligure. Fu protagonista della Congregazione orionina, promotore di molte nuove aperture di case e opere in Italia meridionale, in Inghilterra e negli USA. Fu a lungo consigliere generale della Congregazione.
Era uomo di grande ingegno intellettuale e di notevoli capacità organizzative che seppe magnificamente valorizzare in tante imprese di bene. Si lanciava in soccorso di tutte le grandi emergenze. Quella che più ricordata riguarda la salvezza di molti Ebrei. Don Piccinini vi si dedicò con passione e intraprendenza durante la seconda guerra mondiale. Inventò in Congregazione e realizzò un collegamento di protezione civile. Oggi, lo ricordiamo perché ha fatto fronte, personalmente e coinvolgendo molti di Congregazione, all’emergenza degli Ebrei da salvare, di tanti che per il solo fatto di essere appartenenti al popolo di Israele venivano perseguitati e condannati in quella che storicamente è conosciuta come “ha Shoah”. Don Gaetano Piccinini ricevette un Riconoscimento nel 1994 dalla Comunità Ebraica di Roma e dal Benè Berith per la sua opera a salvezza di ebrei romani dalle atrocità nazifasciste anche a rischio della propria vita. Il 21 giugno 2011, è stato onorato dallo Stato di Israele con la medaglia di Giusto fra le nazioni.

Don Piccinini si occupò degli orfani e mutilatini del dopo guerra, organizzando una dozzina di grandi istituzioni in Italia, tra cui quella di Monte Mario. Il giorno dopo della liberazione di Roma, il 4 giugno 1944, arrivò a da Don Piccinini una telefonata da una autorità vaticana che segnalava il problema di tanti ragazzi nelle strade di Roma, senza famiglia, esposti a pericoli di ogni genere. Per risolvere il problema c’erano due case vuote, due grandi edifici della Gioventù Italiana del Littorio. Piccinini accettò subito, non sapeva come fare, con quali risorse, ma aveva un grande cuore e aveva una Famiglia alle spalle. Accettò e iniziò. Quei due grandi edifici divennero il Centro Don Orione di Monte Mario per Orfani e Mutilatini, e molto altro.
Ci furono anche altri interventi strategici di “protezione civile e spirituale” operata e organizzata da Don Piccinini. Fu tra il primo a giungere in soccorso nell’alluvione del Polesine (1951), si lanciò con tempestività e saggezza – sempre con la collaborazione di religiosi, laici e suore orionine – nel terremoto dell’Irpinia (1962), nel disastro del Vajont (1963), fino al terremoto della Valle del Belice (1968) in Sicilia, a Gibellina.
Don Piccinini fu uno dei principali artefici dello sviluppo della Congregazione nel dopo guerra. Fu consigliere generale e poi superiore negli USA. La sua vita e la sua attività instancabile si fermarono il 29 maggio 1972, lasciando un grande ricordo per la sua integrità sacerdotale, per il suo apostolato lungimirante e intraprendente, per la profonda vita interiore, il culto dell’amicizia, la promozione del laicato.

Don Flavio Peloso

 

 

Suor Maria Croce Manente (1894-1967)

Madre di cuore magnanimo e generoso, pronto ad ogni necessità

Lucrezia Manente è nata a Roccasecca (FR) 24 marzo 1894 ed è morta a Cusano Milanino (MI), il 22 settembre 1967. Entrò in Congregazione nel 1920 e ricevette da don Orione il nome Maria Croce.

Nel novembre del 1933 godendo della stima e fiducia del Padre Fondatore venne messa come superiora all’apertura del Piccolo Cottolengo di Milano e vi stette per ben 25 anni organizzando il servizio di carità, animando la comunità delle suore e facendo da madre ai bambini, alle ragazze e a tutti poveri e abbandonati che arrivavano alla porta della Casa.

Madre Croce – così veniva chiamata popolarmente, realizzava con cuore generoso il desiderio espresso da Don Orione: “Le Case non sono nostre, ma di Gesù Cristo: la carità di Gesù Cristo non ha partito e non serra porte; alle porte dei Piccolo Cottolengo non si domanda a chi viene, se sia italiano o straniero, se abbia una fede, o se abbia un nome, ma se abbia un dolore!”, e con fiducia nella Divina Provvidenza, in una collaborazione fruttuosa con i sacerdoti di Don Orione, in particolare con don Fausto Cappelli e tanti benefattori coinvolti da lei a favore dell’Opera, si è potuto fare del bene alle persone più bisognose.

Nel burrascoso periodo della guerra il Piccolo Cottolengo ospitò alcune centinaia di nuove ricoverate: donne anziane e invalide, bambine minorate, orfanelle, ragazze albanesi e giovani profughe provenienti dalla Libia. In proporzione alla gente aumentarono pure il lavoro e le preoccupazioni. Incominciarono i bombardamenti aerei che danneggiarono una parte dei fabbricati. Seguì lo sfollamento delle persone assistite in località diverse, site nelle Province di Milano, Como, Varese, Vercelli e Alessandria.

Infine, per chi dirigeva l’Istituto, si profilò lo spauracchio della deportazione nei campi di concentramento nazisti. Purtroppo, anche la Superiora, la cui croce diventava ogni giorno più pesante, andò incontro a grossi guai. Il Piccolo Cottolengo, seguendo lo spirito del suo Fondatore, aveva caritatevolmente ospitato delle persone ebreo anziane e malate. Di questo periodo scrive don Cappelli, anche lui perseguitato e costretto a nascondersi: “Ci fu allora tra noi chi evitò la deportazione in Germania dandosi alla latitanza. Questa sorte precauzionale toccò anche a Suor Maria Croce la quale, avendo saputo in forma riservata che pure il suo nome era elencato nella lista nera di San Vittore, dovette abbandonare la casa di Milano alla chetichella per nascondersi nel Romitaggio di Ghirla”.

Per capire meglio il clima di solidarietà e di carità verso i sprovvisti leggiamo nel diario tralasciato dalle suore e pubblicato nel libro “La c’è la Provvidenza” : 15 Gennaio 1944 – Il Piccolo Cottolengo è divenuto rifugio anche di ricercati dalla polizia germanica e dalle SS. La nostra porta, come voleva Don Orione, deve restare sempre aperta ad ogni perseguitato; 3 Marzo 1944: Quasi quotidianamente i nostri automezzi, carichi di viveri, partono da Milano, dove abbiamo le tessere, e si indirizzano alle case di sfollamento accompagnati sempre da un sacerdote o da una suora; 8 Agosto 1944: Don Capelli deve abbandonare la sede di Milano perché ricercato dai tedeschi. Chi lo abbia denunciato non sappiamo. Avevamo ospitato al Piccolo Cottolengo delle persone ebree perseguitate ed alcune di esse molto ammalate. Si vede che qualcuno è venuto a saperlo. Fortunatamente i Tedeschi arrivarono qui a ricercarlo quando il direttore era a Induno Olona, per il raduno Amici Milanesi colà sfollati”.
Come appreso dal diario Madre Croce con tenacia collaborava nel salvare gli Ebrei, e per questo assieme a don Cappelli è stata messa nella lista nera, cioè ricercata dai Tedeschi, e dovette nascondersi. La conferma del loro nascondimento troviamo anche nel Diario di Casa Madre di Tortona: “18/07/1944 – È arrivato pure qui avantieri a sera tardi da Milano il Direttore Don Capelli perché ricercato dai Tedeschi essendo stato accusato di aver dato ricetto a degli Ebrei. Grazie a Dio non è stato trovato e quindi si è potuto salvare con la fuga.
19/07/1944 – Ci giunse oggi notizia tanto dolorosa che per lo stesso motivo è cercata per catturarla la consorella M. Croce e che si spera arrivare in tempo ad allontanarla”.

Di ciò ella stessa scrive in una pagina del diario:
“Nei primi di Luglio, nella caccia che gli amici facevano agli Ebrei siamo capitati dentro Don Capelli ed io e anche il portinaio. Don Capelli dovette subito fuggire immediatamente. Erano già stati a cercarlo per fortuna che in mattinata ci siamo fermati a Induno. Don Orione bisogna dire che ci protegge continuamente, se no sarebbe stato preso. Don Capelli usciva dalla parte della cucina in camioncino e dall’altro cancello erano venuti per prenderlo. Deo Gratias! Son restati con un palmo di naso. Poi Don Ignazio mi disse che era prudenza allontanarmi anch’io e partì tosto per Induno. Due giorni dopo Suor Umiltà venne chiamata per telefono per cosa urgente dalle Suore Bige dalla casa dei derelitti. Andò subito e le dissero di farmi scomparire che era cercata. Don Piazza venne avvertirmi a Induno. Allora si pensò ritirarmi a Bregazzana con le Suore di S. Giuseppe. Andai subito con Maria Patrizia che si trovava a Induno perché malata per rimettersi. Intanto avvertirono i Superiori a Tortona i quali impensieriti decisero di farmi partire per S. Alberto, ma mentre i Superiori pensavano a questo la Signora Gina aveva già provveduto a tutto. Venne Don Camillone e vedendo che già così si era provveduto ritorno a Tortona per sentire il parere dei Superiori. I Superiori furono contenti e Lui stesso ci accompagnò a Ghirla nel Romitaggio”.

Da tutto ciò scritto sopra risulta che il Piccolo Cottolengo di Milano è stato un luogo di rifugio per tanti bisognosi e fra questi per gli Ebrei. Lo confermano anche altre testimonianze:

Nel necrologio di sr M. Emidia leggiamo che quando era postulante “Andava con la bicicletta a portare gli alimentari agli Ebrei nascosti nelle varie parti della città di Milano”. Invece Madre Ortensia Turati testimonia: “Madre Maria Croce Manenti, più volte ci diceva che in tempo di guerra al Piccolo Cottolengo di Milano sono state ospitate segretamente delle famiglie Ebree e una religiosa in segreto li serviva fino al temine della Guerra del 1945”.
Attraverso questa coraggiosa attività si realizzò ciò che desiderava don Orione per la sua Opera: “Questo è che piace a Gesù: si vive morendo e si fatica dolorando e immolandosi … per la pace del mondo, per chi piange, per chi soffre delle umane ingiustizie; per tutti, per tutti: per vincere il male col bene!”.
Finalmente il 30 aprile 1945, dopo che era cessata la bufera devastatrice della guerra, Madre Croce ritornò al Piccolo Cottolengo di Milano salva, ma non sana, perché i dispiaceri e i disagi di quei giorni influirono negativamente sulle sue già poco floride condizioni di salute.
Non pensando di sé stessa si rende operosa per accogliere nuovi ospiti, come leggiamo nel diario: “2 Maggio 1945: I 100 letti voluti dal Cardinale sono già tutti occupati da donne e bambini fasciste, che errano state raccolte nelle carceri di San Vittore ed ora, per desiderio dì S. Em.za. mandate a noi. Una sola mamma romana ha sei bambini, l’ultimo dei quali ha pochi mesi ed è febbricitante e pare in grave pericolo di vita. Fra i nuovi ospiti ci sono familiari di persone altolocate che si cerca di confortare nel miglior modo possibile; 12 Maggio 1945: Un caso pietoso. Verso sera viene a chiedere ospitalità un povero uomo molto stanco e terrorizzato dalla paura. È un giornalista di Genova, il cui nome è apparso sui giornali tra i ricercati a morte per ragione politiche; 25 Ottobre 1945: La nostra Casa, che nei mesi scorsi è stata arca di rifugio per altri perseguitati, ora comincia a ripopolarsi di gente conosciuta. Siamo preoccupati, perché abbiamo ancora in casa sinistrati e perseguitati politici. Che non sanno dove andare. Non possiamo metterli in strada: e, per quanto la loro presenza ostacoli l’andamento normale dell’Istituto, vengono caritatevolmente trattenuti”.

Padre F. Cappelli disse così di lei: “La benevolenza di M. Croce, che scaturiva da un cuore magnanimo e generoso, si estendeva all’intera famiglia del Piccolo Cottolengo: dalle Suore alle Ricoverate, dai Sacerdoti agli uomini, e raggiungeva anche gli Amici. Le Suore conoscevano per esperienza la bontà della loro Superiora, a cui erano vivamente riconoscenti e affezionate. (…) M. Croce, in quel periodo burrascoso, moltiplicava le sue limitate energie e le sue industrie per sopperire ai bisogni più urgenti delle Ricoverate, sfollate in località diverse e distanti da Milano, e la sua premurosa delicatezza la sospingeva a portare sollievo e conforto anche alle persone benefattrici dell’Istituto”.

Dopo tanti anni di servizio nel Piccolo Cottolengo, con non poco sacrificio passò alla comunità di Cusano Milanino, dedicandosi con instancabile premura all’educazione delle ragazze e aiutando allo sviluppo della Congregazione come consigliera generale, dove morì a 73 anni di età e 40 di professione religiosa.

 

 

Suor Maria Stanislaa Bertolotti (1887-1957)

La «lanterna» della carità

Costanza Bertolotti è nata a Genova 16 febbraio 1887 ed è morta nella sua città nativa il 25 gennaio 1957. Entrò in Congregazione nel 1919 e ricevette da don Orione il nome Maria Stanislàa.

Fin dall’inizio le vennero affidati gli uffici di responsabilità, per il suo equilibrio, la sua maturità, il suo spirito aperto e generoso, che la rendevano idonea a realizzare il programma, ancora in embrione, delle Piccole Suore Missionarie della Carità, sorte appena quattro anni prima. Le difficoltà degli inizi, l’estrema povertà di mezzi, raffinarono sempre più le sue capacità.

Servendosi di lei, don Orione aprì il primo Piccolo Cottolengo genovese a Marassi di via Camoscio nel 1924, poi a S. Gerolamo a Quarto, indi a S. Caterina in via Bosco. Dal Padre Fondatore ebbe lo spirito vasto, generoso, permeato di carità: irradiante carità! Nonostante le sofferenze fisiche seppe donarsi instancabilmente a tutti: agli ospiti della casa, alle suore, benefattori e tutte le persone incontrate in svariate situazioni della loro vita.

“La sua carità non aveva limiti. Nel 1931 mentre partivano le prime Suore per l’America latina aiutate tanto da sr Stanislàa, Don Orione lo seppe e nell’omelia, parlando a lungo della carità, si espresse pressappoco in questi termini: «la carità si prodiga fino all’inverosimile, la carità prevede; non mette limiti alla generosità, a tutto pensa. Così ha fatto per voi questa suora, la Superiora di questa casa. Vi ha corredato di tutto, ha pensato a tutto, e posso dirvi di non aver mai trovato una carità così grande»”.

Di lei scrisse una suora: “… Esercitava la carità con criteri molto aperti, tipo orionino, con larghezza di vedute. Era previdente nelle necessità altrui, generosissima, perché viveva di fede completamente abbandonata e fiduciosa nella Divina provvidenza. Dava… dava tutto, fino all’ultimo spicciolo, sicura che Dio avrebbe provveduto nuovamente alle necessità dei suoi poveri. Era come il canale che riceve l’acqua e la trasmette…”.

Visse il tempo della seconda Guerra nel Piccolo Cottolengo di via Bosco, ma per l’esperienza della vita e fiducia del P. Fondatore, fu punto di riferimento, una «lanterna» di luce, di guida e di carità per tutte le altre comunità genovesi, e quando aumentò la persecuzione degli Ebrei, collaborò fattivamente, generosamente e in silenzio alla loro protezione.

La guerra ha causato tante sofferenze umane, tanti, morti e feriti, anziani e bambini abbandonati; chi portava avanti le strutture assistenziali doveva far fronte a procurare in tempo di bombardamenti e di pericoli, cibo e vitto per tanti assistiti, e di ciò leggiamo nelle pagine del diario di Piccolo Cottolengo di Genova.

La persecuzione degli ebrei, a seguito delle leggi razziali, fu una nuova emergenza a cui far fronte con tutti i mezzi, per seguire l’invito di Pio XII: «Salvate gli ebrei, anche a costo di sacrifici e pericoli. Con prudenza; ma fatelo!”.

In tante case i sacerdoti e i religiosi di Don Orione furono richiesti di proteggere e di nascondere gli ebrei minacciati e perseguitati, sia da amici, sia dai vescovi, come ad esempio dai cardinali Schuster e Boetto, rispettivamente di Milano e di Genova, che avevano organizzato nelle rispettive sedi dei centri di aiuto.

Questa apertura della Chiesa viene descritta nel libro di Mario E. Macciò “Genova e «ha Shoah». Salvati dalla Chiesa”: “la concentrazione a Genova di tutti gli esuli ebrei e dei perseguitati politici era stata predisposta, e in u certo modo privilegiata, in relazione alla posizione geografica della città che consentiva di poter raggiungere con minori difficoltà la frontiera svizzera, cioè la salvezza in una nazione neutrale”.

L’autore del libro descrive poi la collaborazione che diede l’Opera di Don Orione. Gli Ebrei che si presentavano al cortile dell’Arcivescovato, dopo un esame delle situazioni denunciate venivano da don Repetto destinati ai diversi “porti sicuri”. Per questo particolare e non facile “servizio di collocamento”, nonostante la più stretta sorveglianza delle pattuglie sulle vie della città, collaboravano con don Repetto tre giovani “orionini”: Luigi Carminati, Antonio Chitti, e Ferruccio Fisco. Essi, alternandosi, andavano in Curia da don Repetto che indicava loro dove recarsi a prelevare le persone che dovevano poi accompagnare nei luoghi in cui venivano ospitate: naturalmente erano tutti Ebrei clandestini.

La generosa dedizione di questi tre giovani orionini, più esposti al pericolo di morte, era sostenuta soprattutto dal Superiore don Enrico Sciaccaluga, dai suoi Confratelli in diverse case di Genova e dalla collaborazione delle Suore, in particolare delle due Superiore delle Case più grandi: di Sr M. Stanislaa (Santa Caterina, via Bosco) e Sr. M. Innocenza (Istituto Paverano) e di alcune Consorelle coinvolte direttamente nel procurare gli aiuti.

Le comunità collaboravano fra di loro, e il punto di riferimento e di grande aiuto era quella di S. Caterina di via Bosco, dove stava la Superiora sr M. Stanislaa, sostenuta da alcune suore per i contatti esterni e per la collaborazione con Luigi Carminati nell’opera di salvare gli Ebrei, in particolare era sr M. Isabella Zema.

È interessante di leggere alcune pagine del Diario di questa Casa, dove si vede chiaro il contatto di don Sciaccaluga con sr M. Stanislaa e con sr Isabella, tutto il movimento di fr Carminati, alcuni religiosi e religiose da Camaldoli e di Quezzi dove anche venivano nascoste le famiglie Ebree. Dietro le parole del diario: “Sono venuti i poveri a prendere i soldi”, possiamo anche immaginare i profughi che cercavano aiuto e in queste case di carità lo trovavano sempre.

Leggendo le pagine dei diari, che sono la fonte delle notizie, si vede e si sente tutta la fatica di operare fra gli allarmi che preavvisano il bombardamento, la paura di intraprendere i “viaggi di fortuna” per trovare alimento, fare i collegamenti fra le comunità, amici e benefattori, curare le ammalate, accompagnare lella morte… Ma la Divina Provvidenza non abbandonava mai!

“15/6/1944 (giovedì) … è venuto don Pensa. … Sr M. Isabella è andata a Montebello
19/6 … è suonato 3 volte l’allarme…
20/6 …è tornata sr M. Isabella da Montebello; è venuto due volte Carminati; è venuto Fischio [Ferrucio Fisco]; è suonato quattro volte l’allarme”.

Leggendo i diari spesso usciva il nome di sr M. Isabella, la quale infatti, alle volte assieme al fr. Lugi Carminati (morto in uno dei viaggi di fortuna) andava fuori sia a Genova che nel tortonese, in particolare nei tempi dello sfollamento, per far fronte alle necessità degli ospiti, ed essere di collegamento fra i superiori. Questa suora è morta alla fine della guerra, in giovane età, come del resto suor M. Plautilla e tante altre.

E in questo contesto di guerra e della necessità di dare un aiuto fattivo agli Ebrei sr Stanislaa rischiava per prima come responsabile della comunità, la quale organizzava segretamente aiuto e coinvolgeva in questa opera di carità le sue sorelle, collaborando con gli amici e i benefattori di fiducia e con i Figli della Divina Provvidenza.

“Ella viveva in totale coerenza con un mirabile insegnamento che credo di avere appreso proprio da lei e che mi ha fatto sempre molto pensare: «Piangere con chi piange, gioire con chi gioisce, prendere parte con tutto il cuore tanto al suo dolore, quanto alla sua gioia». Questo significa vivere per il prossimo, partecipando – data la discrezione con cui ella agiva – nel modo più delicato e sublime, ai suoi problemi con un atto d’amore, animato da quella purezza d’intenzione che lo rende carissimo a Dio”.

 

 

DON CARLO STERPI (1874-1951)

Collaboratore e successore di Don Orione, tessitore di relazioni e di attività di bene.

Carlo Sterpi nacque a Gavazzana (Alessandria) e morì a Tortona (Alessandria) il 22 novembre 1951. Fu il primo successore del beato Don Luigi Orione alla guida della Piccola Opera della Divina Provvidenza, della quale è considerato anche con-fondatore, in quanto stretto e determinante collaboratore di Don Orione con il quale visse in totale e costante sintonia.

Di grande personalità umana e spirituale, Don Sterpi volle identificarsi proprio come “primo discepolo e collaboratore di Don Orione”, del quale tradusse in formazione e organizzazione pratica gli ideali spirituali e le grandi aperture apostoliche. Da parte sua, Don Orione lo ricambiò con stima e affetto singolari. Alla partenza per la prima visita nell’America Latina, nel 1921, scrisse: “Se Iddio mi dicesse: ‘Ti voglio dare un continuatore che sia secondo il tuo cuore’’, io gli risponderei: ‘Lasciate, o Signore, poiché già me lo avete dato in Don Sterpi”.

Carlo Sterpi incontrò Luigi Orione nel seminario di Tortona e, nell’ottobre 1895. Era di due anni più giovane, gli fu compagno di seminario, amico fraterno, e decise di seguirlo perché “Avevo capito che, con lui, mi sarebbe stato più facile farmi santo”. Andò in suo aiuto come assistente quando, il chierico fondatore aperse un collegio per ragazzi poveri nel rione di San Bernardino. Quando il chierico Sterpi si presentò al collegio, Don Orione stava assistendo i ragazzi in studio. “Bravo! Sei venuto in tempo – gli disse -. Fermati un po’; assisti un momento al mio posto”. E uscì, lasciandomi solo con tutti quei ragazzi”. Poi, Don Sterpi commentava: “Ne sono passati di ‘momenti’ da allora!”. Passò tutta la vita con lui.

Don Sterpi era di modesta apparenza, ma irradiava la sua profonda pietà dai lineamenti del volto soffuso di materna tenerezza. Fu padre e madre per i Figli della Divina Provvidenza. “Un prete che pare proprio un prete: quello è il nostro Don Sterpi”, disse di lui Don Orione.

Le schiere di sacerdoti e di chierici, di suore, di amici, di benefattori e personalità che gravitavano attorno alla Piccola Opera della Divina Provvidenza trovavano in lui un riferimento sicuro, accogliente e sempre stimolante. Si interessava personalmente di tutti, conosceva la loro storia, i loro ideali, i loro dolori.

Il 12 marzo 1940 don Orione morì e, il 13 agosto successivo, il primo Capitolo generale elesse unanimemente Don Sterpi quale Direttore generale della Congregazione dei Figli della Divina Provvidenza, che allora già contava 820 religiosi.

Don Sterpi si sottopose ad una estenuante mole di lavoro nel nuovo incarico affidatogli e, inoltre, dovette fare fronte ai disagi, alle difficoltà e alle preoccupazioni provocate dalla guerra che insanguinò l’Italia dal 1940 al 1945. Manifestò capacità organizzative, lungimiranza e un sacrificio di sé commovente. Ebbe la consolazione di ricevere, il 21 gennaio 1944, l’approvazione pontificia della Congregazione.

Durante la guerra, promosse e coordinò il soccorso e la protezione degli Ebrei. Si può dire che quasi ogni casa della Congregazione accolse, nascose e aiutò Ebrei durante le leggi razziali. Costituì una rete di protezione e di salvezza usufruendo di tutte le possibilità di nascondimento e di inserimento nelle diverse opere e attività della Congregazione in Italia, da Nord a Sud, di preti e suore, di attività per ragazzi e adulti, uomini e donne, scuole e opere di assistenza.

Principali protagonisti di questa rete di protezione e di salvezza furono Don Gaetano Piccinini nell’area romana, Don Enrico Sciaccaluga e Suor Stanislaa a Genova e Liguria, Suor Maria Croce a Milano, Don Giuseppe Pollarolo a Torino, Don Giovambattista Lucarini e Don Lorenzo Nicola nel tortonese e alessandrino. Su tutto e su tutti questi preti e suore, che il nostro Giardino già accoglie come Giusti, vegliava e incoraggiava Don Carlo Sterpi.

Particolarmente affettuosa e coraggiosa fu la sua azione a salvezza del famoso scultore Arrigo Minerbi (Ferrara, 10 febbraio 1881 – Padova, 9 maggio 1960) che egli nascose prima nella propria casa paterna di Gavazzana, vicino a Tortona, e poi, dopo che i tedeschi ne scopersero il rifugio, trasferendolo a Roma, accompagnato dal fido fratello laico Antonio Tosi. All’Istituto San Filippo, in via Appia Nuova, lo scultore giunse dopo un viaggio avventuroso di tre giorni, con il nome di Arrigo Della Porta, e qui rimase nascosto fino al giorno della liberazione.

Nel 1946, terminata la guerra, Don Carlo Sterpi, resosi conto delle sue condizioni di salute troppo precarie, decise di rinunziare volontariamente alla carica di Superiore generale. Da quel momento, visse nella discrezione, a Tortona, dedicandosi al ministero della paternità verso i confratelli e verso un gruppetto di orfanelli. Si spense nella sua cameretta il 22 novembre 1951.

Il Card. Giuseppe Siri fu tra i primi a chiederne la canonizzazione affermando “di non avere forse conosciuto sacerdote che più dello stesso Don Sterpi spirasse umiltà, dolcezza, spirito soprannaturale perfetti e costanti”. Il 7 settembre 1989, con Decreto pontificio ne è stata riconosciuta l’eroicità delle virtù ed è stato dichiarato “venerabile”.

Da oggi, il Venerabile Don Carlo Sterpi qui nel Giardino dei Giusti di Pontecurone, insieme agli altri suoi Giusti orionini, continuerà a vegliare e ad incoraggiare tutti coloro che responsabilmente sapranno scegliere il Bene.

Don Flavio Peloso

 

 

 

 

Tutte le foto fanno parte dell’Archivio Don Orione – Roma

 

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